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Giotto Giannoni
POLIVALENTE (8 marzo 1895 - 6 agosto 1963)
Ottocentesco
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Giotto non proveniva da famiglia di ceramisti, ma era, si dice, amante del bello e pittore autodidatta, iniziò la sua formazione sin da ragazzino nella bottega di un fabbro savinese, dove sembra che più di una volta fosse stato “sorpreso a costruire con la creta minuscole figurine”; erano i primi segnali della sua naturale vocazione artistica, e fu proprio allora, che iniziò“lo studio dei maestri del passato e la frequentazione assidua dei musei". A Giotto piaceva interessarsi d’arte in generale ma in particolare,sapere tutto sulla storia della ceramica di Monte San Savino, dagli etruschi all’era medievale, alle tipologie sempre più vivaci dell’epoca rinascimentale, alle policromie del Sei e del Settecento, alla ceramica del tardo Ottocento e del primo Novecento; tutto un lunghissimo arco di storia che inizia con i capolavori del più grande figlio di Monte San Savino, lo scultore, architetto, ceramista Andrea Sansovino e che nei secoli successivi trova un filo conduttore di mirabile coerenza nell’attività di alcune famiglie savinesi di ceramisti, i cui forni però si spengono all’inizio del 900. Come scrive il Romanelli in un suo studio sulla ceramica savinese, del 1972: "mentre in molte zone la ceramica muore con l’inizio del sec. XX, a Monte San Savino invece continua la sua vita per merito di Aretini ... Giotto Giannoni ... Lapucci". Intorno al 1910, dopo aver combattuto valorosamente nella Grande Guerra,iniziò la sua attività artistica di ceramista, fianco dell’illustre ceramista savinese Zulimo Aretini e continuando ad interessarsi asiiduamente darte,intraprendendo studi sulle origini e la storia della ceramica di Monte San Savino. Partendo da queste profonde radici culturali, il giovane Giottotrasse l’ispirazione per una personale e originale ricerca innovativa. Ben presto tra il 1919 e il 1920 avviò un’attività autonoma associandosi con Donatello Ceppodomo, esperto ceramista torniante. La loro bottega, assunse il nome di “Ceramiche San Gallo”, ma l’attività ebbe alti e bassi e fu proprio questo che indusse il Ceppodomo a farsi assumere come dipendente. Mancando di alcune conoscenze tecniche, Giotto decise di affinare le sue doti recandosi a Verona come decoratore presso la “Industria della Terra Cotta”, per qualche mese. Al suo ritorno Giotto, ormai dotato di “solida esperienza tecnica e di mano delicatissima nel graffire e nel dipingere, si mette in proprio nella seconda metà del1923. La sede originaria della fabbrica era nella parte alta di Monte San Savino all’esterno delle mura castellane di fronte alla Porta Fiorentina. S i trasferì poi nel 1928, in località Le Fonti, dove ancora esiste il laboratorio. La bottega raggiunse un notevole successo assumendo con la nuova sede un assetto di maggiore organizzazione. Già nel 1928 lavoravano stabilmente nella fabbrica oltre a Donatello Ceppodomo, Ivo Ficai, Sandro Mincinesi, Manlio Marcucci, Umberto Rossi e Aldo Sabbatini, che Giotto accolse come un figlio ed altri operai che a volte compaiono per lavori occasionali come nel caso di un tal “Paiolo”, fornaciaio. Proprio questa fiorente attività fa sì che nel 1929 si aggiungano alle maestranze Luconi Cavallotti e il pittore Ovidio Gragnoli che lavorò presso la bottega fino a tutto il 1930. In questi anni di maggiore successo la fabbrica viene premiata con Medaglia d’Oro alla Esposizione di Palazzo Vecchio in Firenze nel 1929 e con un premio a Bolzano nel 1930. Sotto la guida di Giotto la bottega funzionava come un vero laboratorio dell’arte ceramica a tutto campo, come testimoniano, tra l’altro, le ordinazioni per opere della più ampia varietà tipologica, da ogni parte del mondo. Tra i clienti importanti si segnalano: nel 1929 la contessa Guicciardini e nel 1930 Carlo d'Angiò, Winston Churchill e Casa Savoia per cui venne realizzata una serie di piatti con i ritratti della famiglia. Negli anni successivi l’attività della fabbrica si ridusse. Tuttavia anche nel periodo bellico Giotto e i suoi tre collaboratori continuano l’attività pur se con comprensibili modesti risultati commerciali. La fabbrica, infatti, produsse vasi, piatti, scaldini, formelle e immagini sacre, con decori originali della bottega su ingobbio dato a goccia con effetti “a buccia d’arancio”. Infine il decoro preferito dallo stesso Giotto, il “Fiore azzurro”, questa sorta di fiordaliso della fantasia, lieve come un piumino, oggi denominato, in omaggio all’ideatore, “Vecchio Giotto”, una originale interpretazione dei motivi settecenteschi, consistente di un bouquet tracciato su ampio fondo bianco con tratto abile e veloce. Questo decoro semplice nell’impianto, ma che richiede gusto, abilità ed esperienza del pittore, sintetizza filosofia produttiva della ceramica di Giotto Giannoni: si tratta di una ceramica che potremmo definire, “colta”, poiché tiene conto, senza stravolgimenti, delle tradizioni e dei decori affermatisi nel tempo. Siamo alle porte della seconda guerra, la bottega conta pochi fedeli rimasti al fianco di Giotto, che affina sempre di più il suo stile ormai popolarissimo tanto da attirare l’interesse di numerosi collezionisti e compratori privati. Le vicende della fabbrica nel secondo dopoguerra vedono una rapida ripresa dell’attività con immediate affermazioni: è, infatti, del 1946 la Medaglia d’Argento conseguita alla Mostra dell’Artigianato di Roma, un’altra nel 1949 alla Fiera di Arezzo e ancora a Bolzano nel 1954. In quegli anni s’inserisce attivamente nell’azienda il figlio Araldo (30.10.1937) che si forma sia come modellatore e torniante sia come pittore. Giotto si spense nel 1963, dopo una malattia di tre anni, che, però non lo dissuase dal continuare a creare opere meravigliose e a trasmettere il suo insegnamento tecnico e i suoi intendimenti artistici ai figli Giorgio e Araldo.